Dal libro "Isole di cultura"

Campello Monti/Kampel -

Walser Gemeinschaft in der Provinz Verbania

PRESENTAZIONE GEOGRAFICA

Kampell: Gesamtansicht

Kampell: Gesamtansicht

Campello Monti è un piccolo paese, di origine Walser, situato a 1305 metri slm nel versante meridionale alpino zona del Monte Rosa - addossato al Monte Prevor (‘l Pruvur) metri 1726, propaggine meridionale del Monte Capezzone (Jungebärg) metri 2421 che con l'Altemberg metri 2394 contornano il lago del Capezzone (Kupsee) metri 2100. Si raggiunge percorrendo la strada provinciale che inizia ad Omegna, sul lago d'Orta, (provincia di Verbania, già Novara) percorrendo l'intera Valle Strona che, dopo circa 19,2 kilometri, termina proprio a Campello. Per coloro che provengono da Milano o Torino, la via più agevole è l'autostrada Milano/Laghi o la Voltri/Sempione con uscita Gravellona Toce (Verbania), che dista da Omegna appena 5 kilometri.
Campello Monti ha sempre mantenuto stretti legami con la Comunità Walser di Rimella, in Valsesia, dalla quale circa settecento anni fa un esiguo gruppo di contadini pastori di origine vallesani ha iniziato a colonizzare anche la testata della Valle Strona, posta a est subito dopo aver valicato la Bocchetta di Rimella, in tittschu (la lingua walser) "der Schtronerfurku" (Passo dello Strona, il valico dal quale passa la mulattiera che da secoli collega Kampel a Remmalju cioè Campello a Rimella.
E' stato comune autonomo per 115 anni e precisamente dal 07 dicembre 1814 al 18 febbraio 1929. Il Comune era formato dal capoluogo, Campello (Kampel) e da quattro frazioni: Tapone (Tapòn) posta a 1087 metri slm; Pian Pennino (Pianpanìn) a 1121 metri ; Valdo (Waud) a 1171 metri e Ronco (Runk) a 1285 metri.

La fascia degli alpeggi (escludendo l'alpe Foscalina, di pertinenza della frazione Tapone) vede una compressione altimetrica in poche centinaia di mesi di quota: l'alpeggio più basso è l'alpe DeI Vecchio (mt. 1465), mentre il più alto è l'alpe Capezzone (mt. 1845). Questa è una particolarità di Campello Monti, dipendente certo dalla specifica morfologia della valle, ma con importanti implicazioni, tutte da studiare, sulle strategie produttive. Quattro erano gli alpeggi principali, quelli che sopportavano il maggior carico di bovini (fino a 35 - 50 bestie): Cama, Fornale Sotto e Sopra, Cunetta Sotto e Sopra, Capezzone.
Attorno a questi centri nevralgici, altri pugni di baite e casere incollate alle rocce o in bilico sui dossi. Come gli alpi Scarpia e Calzino, nascosti negli unici due pianori del versante campellese del Bise Rosso (‘l Bigiruss) , uno scivolo pietroso battuto dalle valanghe. Come Pennino Grande e Penninetto, a cavallo di due valli con le poche baite che si stagliano contro il cielo, nette da ovunque le si guardi.

STORIA DELLA COMUNITÀ

E' tutt'altro che facile riassumere con pochi accenni la lunga e tormentata storia di Campello "dalle origini fino ai giorni nostri". Si tenterà di farlo attraverso le tappe più importanti e significative che possono, in qualche modo, dare una spiegazione di come il paese è ora.
E' certo che l'origine di Campello Monti la si debba ai Walser di Rimella anche se l'alta Valle Strona - ai tempi ancora territorio della Val Sesia - era già sfruttata, per i pascoli estivi, dai pastori cusiani molto prima dell'arrivo dei rimellesi.
I pascoli, infatti, erano di proprietà del monastero di San Graciniano di Arona che ne concedeva l'uso ai pastori del Cusio, autori, secondo le antiche cronache, di razzie di bestiame ai danni dei rimellesi.
Ma i veri colonizzatori, coloro che seppero superare le enormi difficoltà che la permanenza invernale comportava, furono i Walser di Rimella che, ottenuta la concessione degli alpeggi del Capezzone, del Pennino e del Paninaccio, si stabilirono alla confluenza dei torrenti Strona e Chigno, formando un vero e proprio paese.
Nel 1757 Giovanni Battista Tensi, nelle sue memorie, racconta che l'origine del paese la si deve ad una precoce ed abbondante nevicata che costrinse gli alpigiani a svernare nelle baite estive che si trasformarono in dimore stabili. Il Tensi ebbe la fortuna di vedere atti che, in seguito, vennero perduti e, quindi, dobbiamo fidarci - seppur con le dovute cautele - di questa versione della genesi di Campello.
Il problema delle fonti di ricerca è tutt'ora aperto in quanto i testi su cui operare ed i documenti sono frammentari e, spesso, contraddittori.
La travagliata storia del paese inizia e con essa il lento e progressivo allontanamento ed affrancamento di Campello da Rimella.
Il primo episodio importante avviene il 21 aprile 1551, data nella quale Monsignor Ubertino Serazio, vescovo ausiliare del cardinale Ippolito d'Este, interrompe la tradizione di portare, per la sepoltura, i morti di Campello a Rimella. In quel lontano giorno viene consacrata una cappella ed un piccolo cimitero.
Nel 1597 Carlo Bescapè, vescovo di Novara, aggrega Campello alla parrocchia di Forno sottraendola a Rimella.
Nel 1698 viene inaugurata la chiesa del Gaby, alla confluenza dei torrenti Chigno e Strona, di cui resta oggi, quale unica testimonianza, il perimetro dell'antico campanile edificato nel 1779.
Nel 1749 Campello, che conta 190 abitanti, diventa parrocchia autonoma e viene costruito l'ossario del cimitero che sorgeva là dove ora c'è la fontana pubblica ed il lavatoio. Il primo parroco di Campello diviene Don Antonio Fermo Tambornino.
E' del 1754 la statua del Gesù nel Sepolcro esposta oggi nell'altare laterale della chiesa di San Giovanni Battista, che fu protagonista del miracolo che si festeggia tutti gli anni, la seconda domenica di agosto, con la festa del Crocefisso.
Nel 1781, infatti, il 19 agosto, una disastrosa inondazione demolisce la chiesa del Gaby che vide disperse tutte le sue suppellettili e documenti. Furono ritrovati un crocefisso di avorio - che si riuscì a ricomporre per intero - e, "miracolosamente" intatta la statua del Cristo.
Pochissimi anni dopo (il 21 aprile 1784) i campellesi posero la prima pietra di una nuova chiesa che venne edificata, in soli sei anni, in località Staffa.
Nel 1790 avvenne la solenne inaugurazione con la presenza di Monsignor Ubertone che la definì "la chiesa del miracolo".
Nel 1792 si registra la prima ed unica disputa "seria" tra le comunità di Campello e Forno per lo sfruttamento degli alpeggi intorno a Campello. I "Bandi Campestri" del 1697 non venivano rispettati dai fornaroli che, con la loro opera di disboscamento, mettevano in grave pericolo il paese privandolo di una importante protezione contro le valanghe.
I campellesi, appellatisi al Senato di Torino, si videro approvare i "Bandi Campestri" nel 1793, ma solo nel 1796, con un rogito lungo ed elaborato, finalmente si compose la disputa tra i due paesi.
Nel 1815 viene nominato il primo Sindaco del paese nella persona di Francesco Guglianetti e con lui due Consiglieri. Comincia così la vita "comunale" del paese, durante la quale i campellesi ebbero modo di autodeterminarsi per molte ed importanti questioni. Un periodo che durò più di un secolo e finì, come vedremo, con l'accorpamento del paese al più vasto Comune di Valstrona.
Nel 1817 avviene l'inaugurazione dell'altare dedicato al Gesù nel Sepolcro e del Campanile.
Un'altra tappa importante l'aggregazione, nel 1837, di Campello a Pallanza essendo stata soppressa la Provincia Valsesiana.
Nello stesso periodo si comincia a parlare della strada che oggi collega Omegna a Campello e che fu oggetto di progetti, dispute e conflitti che, per la loro complessità non è qui il momento di esporre.
Nel 1862 il paese assume l'attuale denominazione con l'aggiunta a Campello della parola Monti per distinguerlo, quasi ce ne fosse stato bisogno, da Campello sul Clitunno in provincia di Perugia.
Nel 1867 si fonda la tradizionale festa del Crocefisso e, dieci anni dopo, quella della Madonna della Neve.
Altri anni importanti in questa lunga storia sono :
* il 1895 nel quale venne sistemata in Chiesa una grande tela, attribuita alla scuola del Guercino, rubata il 26 maggio 1973 e ritrovata fortunosamente il 07 febbraio 1999, nella vicina Svizzera, dal Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma per la Tutela del Patrimonio Artistico. Questa tela venne donata, alla chiesa di Campello, dal Cav. Francesco Janetti.
* il 1907 quando si edificò l'attuale cimitero, dono del Cav. Bartolomeo Janetti;
* il 1912 nel quale viene sistemata la via principale del paese, la Gassa, che, da allora, non ha più subito restauri, se non parziali. La Gassa verrà interamente ristrutturata nel 1997, e il 21 giugno 1998, in occasione della festa patronale di San Giovanni Battista, verrà inaugurata dal sindaco Giulio Piana.
Nel 1922 si riprende la sfruttamento delle miniere di nichelio che proseguirà fino al 1946, anno della chiusura definitiva dell'attività mineraria. Oggi si possono ancora vedere gli ingressi delle gallerie di estrazione e, diroccate, le strutture della laveria per la lavorazione del materiale grezzo.
Nel 1924 i 64 elettori di Campello Monti affrontarono le ultime elezioni amministrative del paese che, con Regio Decreto, nel 1929 viene aggregato al nuovo Comune di Valstrona. Gli ultimi decenni di vita di Campello sono di lento ed inesorabile declino. L'ultimo abitante stabile è stato Augusto Riolo, che rimase in paese fino al 1974. Fu anche, perché rimellese, l'ultimo conoscitore del tittschu walser a Campello. Da citare anche Traglio Abele, nato a Rimella ma sposatosi a Campello, dove esercitò anche il mestiere di "guida locale" del C.A.I.
Le notizie fin qui date provengono da varie fonti, la principale è il libro, edito nel 1941, "Campello Monti dalle sue origini fino ai giorni nostri", opera di Don Giulio Zolla e Antonio Tensi che, con pazienza e passione, ricostruirono le cronache dei principali periodi di vita del paese. Dal 1941 poco o nulla si è fatto, resta così una lacuna di oltre cinquant'anni di storia del paese che fino ad oggi nessuno ha voluto o saputo colmare.

I WALSER A CAMPELLO

Scrivere oggi dei Walser di Campello è una impresa difficile per la mancanza di documenti raggruppati e pubblicati in modo organico. Per questo lasciamo a Enrico Rizzi, il maggiore studioso italiano del Walser, il compito di tracciare, delineare e documentare i fatti storici che hanno fatto entrare Campello nel novero delle Comunità Walser italiane.
Tornare a Campello oggi, sulle orme degli antichi coloni, è per me un viaggio a ritroso in venticinque anni di personali esperienze di studio sulla storia dei Walser. Fu proprio qui infatti che, in tempi che si fanno lontani, ho iniziato l'entusiasmante ricerca delle origini di questo piccolo popolo, ricerca che non si è certo conclusa, ma che ha rappresentato per me un percorso ormai lungo, tra le montagne e tra i libri.
E proprio all'origine walser di Campello, a metà degli anni '70, mi capitò di dedicare una conferenza ai Lions di Borgosesia. Da allora la ricerca storica sui Walser ha compiuto passi talmente significativi da mutare radicalmente il quadro delle conoscenze così come appariva negli anni '70. Per quanto riguarda in particolare queste valli meridionali del monte Rosa, molte tesi di allora devono essere criticamente riviste. Soprattutto il peso assegnato alla feudalità laica (in primo luogo i Biandrate) nell'insediamento dei coloni provenienti dal Vallese, deve essere ridimensionato storicamente; e occorre assegnare all'iniziativa dei monasteri un ruolo assolutamente primario, così come è venuto progressivamente emergendo in modo sistematico e chiaro dai molti documenti (alcuni inediti) che sono andato pubblicando dalla metà degli anni '80 agli scorsi mesi (quando ho approfondito il caso di Carcoforo, assai simile a quello di Campello).
Da questi nuovi studi emerge un panorama netto della situazione feudale delle valli meridionali del Rosa nei secoli (XIII XV) nei quali si compì la colonizzazione walser alle testate delle valli Grande della Sesia, Sermenza, Mastallone, Strona e Anzasca.
Tutte queste testate erano occupate da alpi posseduti dei monasteri. Si trattava di pascoli sfruttati in estate, all'estremo limite dei grandi feudi che re e imperatori, fin dall'epoca franca e longobarda, avevano legato al patrimonio di monasteri, di capitoli canonicali o di mense vescovili. In qualche caso provenivano dal patrimonio di dinastie laiche - come i conti di Pombia, di Biandrate o di Castello - che, a partire dal decimo secolo, erano state generose nel concedere donazioni ai monasteri, cercando così di propiziarsi la vita eterna, e nello stesso tempo di accrescere (senza privare gli eredi dei pingui possedimenti di fondovalle) il patrimonio di fondazioni religiose e abbazie cui le famiglie feudali erano legate da una complessa trama di legami dinastici e politici.
Alla formazione di questo patrimonio concorse anche una solerte cura dei monasteri rivolta allo sfruttamento sistematico della montagna. Dalle pergamene rimaste, relative agli alpi dei monasteri in Valsesia (come quelli di San Nazaro di Biandrate), in periodi quali il XII XIII secolo, emerge un grande fervore nell'acquistare, accorpare, permutare alpi: una vera e propria politica intrapresa dai monaci allo scopo di rendere più razionale e redditizio lo sfruttamento economico dei pascoli più alti. Essi non si limitarono a ricevere donazioni, ma investirono negli alpi i risparmi oculatamente fatti nella gestione agricola dei poderi di pianura, nelle annate agrarie propizie: non diversamente da quanto i benedettini o i cistercensi avevano operato altrove, nelle foreste o nelle paludi, dove sono stati pionieri di colossali opere di disboscamento o di bonifica.
Salendo lungo il versante destro della Sesia, incontriamo così gli alpi di Meggiana (i primi documenti risalgono al 1162) sopra Piode, di Sorbella (1163) sopra Rassa, di Artogna e Locciabella (1297) sopra Campertogno; alpi appartenenti al monastero di San Nazaro di Biandrate. L'alpe Otro, sopra Alagna, apparteneva al priorato cluniacense di San Pietro di Castelletto, che l'aveva ricevuto dal monastero di San Pietro di Cluny, dopo la donazione del conte Guido di Biandrate nel 1083. L'alpe Alagna (valle d'Olen) apparteneva al monastero di San Nazaro di Biandrate almeno dal 1196, come si ricava da un'investitura di quell'anno. L'alpe Mud («Motis»), sull'altro versante della Sesia, apparteneva ai monaci cluniacensi di Castelletto dal 1138, quando lo ricevettero in permuta dal capitolo di San Giulio d'Orta.
Del tutto analoga la situazione nell'alta valle Sermenza, anche se disponiamo in proposito di notizie meno sicure. Nel 1083 il conte Guido di Biandrate legò all'abbazia di Cluny molti beni in Valsesia, tra cui gli alpi di Otro e di Lavazoso, di localizzazione incerta ma posto probabilmente alla testata della valle di Rima. Una serie di pergamene dell'Archivio Storico Diocesano di Novara conferma inoltre come tutta l'alta Valsesia formasse anticamente un compatto territorio di possessi religiosi. All'inizio del XV secolo il vescovo di Novara possedeva, in Val Grande e in valle Sermenza, ben otto diversi alpi: l'alpe Aurie (oggi Safeyatz), sopra Alagna; l'alpe Alzarella (a Riva); l'alpe Rima e Scarpia (nella valle di Rima); nonché gli alpi rispettivamente di Egua, Coste, Ragozzi e Castello (in Val d'Egua). L'origine di questi possessi è presumibilmente molto antica e risale al 1025 1028, quando Corrado II, re di Germania, donò alla Chiesa vescovile di Novara il monastero di San Felice di Pavia e con esso vari altri beni in Valsesia e nella Riviera d'Orta, tra cui Otro (Alagna). Anche l'alpe Mud, ceduto nel 1138 dal capitolo di San Giulio al priorato di Castelletto, si staccò probabilmente dall'originaria signoria vescovile; e non è escluso che altri, tra i beni alpestri passati con il tempo nel patrimonio dei monasteri, derivassero dalla stessa signoria donata all'inizio dell'XI secolo dal re Corrado II al vescovo Pietro di Novara.
Il panorama dei possessi monastici attorno al Rosa si completa con gli alpi del Monastero di San Graciniano di Arona a Macugnaga (già attestati nel 999), nonché quelli del Capitolo di San Giulio d'Orta a Rimella (dove altri alpi minori erano posseduti dal monastero di Arona e, presumibilmente, dal priorato di Castelletto) e di San Graciniano a Campello, sui quali mi soffermerò più avanti. Tutti questi antichissimi alpeggi, in un arco di tempo che va dalla metà del XIII alla metà del XV secolo, in un unico contesto di condizioni economiche e giuridiche, di modalità contrattuali e di finalità colonizzatrici, furono trasformati per iniziativa dei monasteri e per opera dei Walser, da alpeggi estivi in insediamenti permanenti.
I Walser sono il piccolo popolo delle montagne che ha dato vita alla più ardita colonizzazione medioevali nelle Alpi, fondando gli insediamenti umani più elevati del continente europeo. La loro storia inizia nella valle del Goms, cuore dell'Alto Vallese, alle sorgenti del Rodano - (Walser è sinonimo di Walliser, Vallesano) - dove, a 1500 metri sul mare, forse fin dal X XI secolo, si era insediata una colonia di pastori alemanni, scesi dal nord all'epoca delle leggendarie migrazioni alemanne ed arrestata, nella sua marcia verso il sud, dalla grande barriera alpina. Alcuni gruppi di pastori tuttavia, colonizzando la testata della valle del Rodano, fondarono il primo importante insediamento permanente in alta quota. Si trattava di trasformare i boschi in pascoli e campi, resistere alle insidie degli inverni alpini, sopravvivere in altitudine con il solo sostentamento delle risorse della montagna, in un'epoca nella quale l'uomo medioevale disponeva di attrezzi e tecniche di lavoro ancora primitive, e il mondo alpino, inospitale, era ancora avvolto da terrificanti misteri.
Alla fine del XII secolo i discendenti di questi pastori alemanni attestati nel Goms avevano raggiunto l'intero territorio alto vallesano, colonizzando antichi alpi nelle valli laterali del Rodano; e iniziarono a travalicare nelle valli meridionali dando vita al fenomeno walser.
Quello tra il XII e il XIII secolo fu un periodo nel quale l'economia medioevale vide la grande esperienza delle bonifiche delle paludi e dei territori incolti. Nelle Alpi, contribuirono a favorire questi insediamenti anche le condizioni climatiche: una lunga parentesi calda, tra l'avanzata dei ghiacciai della seconda metà del primo millennio, che aveva cancellato ogni traccia del popolamento «preistorico» in quota, e la cosiddetta «piccola età glaciale» iniziata nel XVI secolo.
L'espansione dei Walser seguì diverse ondate migratorie. Una prima dal Vallese al versante subalpino. Formazza e Gressoney furono gli insediamenti più antichi; poi Macugnaga, Rimella, e via via tutte le testate valsesiane. Da Formazza i Walser raggiunsero Bosco Gurin e le Alpi retiche (a partire dalla fine del XIII secolo), donde la diaspora si allargò (tra il XIV e il XV secolo) in pressoché tutte le valli elevate dei Grigioni e del Vorarlberg (Austria), fino al Tirolo ed ai confini della Baviera. Direttamente dal Vallese, nel XIII secolo, altre ondate minori spinsero i Walser nelle valli occidentali bernesi e nell'alta Savoia.
Tutto questo vasto movimento - fondato su precisi contratti agrari tra signori feudali (religiosi o laici che fossero) e gruppi spontanei di coloni - fu reso possibile dalla concessione delle terre in affitto ereditario e dall'applicazione del cosiddetto «diritto dei coloni», quale si era andato formando tra l'XI e il XIII secolo, nel grande crogiuolo delle colonizzazioni europee, grazie all'interesse sempre maggiore che feudatari e contadini mostravano per lo sfruttamento delle terre incolte. Per tenere legati i coloni alla terra, convincerli ad affrontare il duro lavoro del dissodamento, ricompensando le loro immani fatiche, occorreva concedere loro la liberazione dalla condizione servile e la garanzia del possesso perpetuo delle terre bonificate. Alla morte del colono, il podere passava ai suoi eredi, che continuavano a pagare un canone d'affitto immutabile e perpetuo.
La trasformazione dell'incolto in terra coltivata fu un'impresa ardua che comportò molti anni di lavoro: l'abbattimento del bosco, il dissodamento della terra, la regolazione delle acque e la loro conduzione dai ghiacciai ai pascoli, l'adattamento all'ambiente di attrezzi, sementi, animali da allevare. L'approccio walser al territorio alpino avvenne secondo il caratteristico modello dell'insediamento di tipo sparso, la fattoria isolata e autosufficiente, detta Hof. L'economia walser poggiava sul delicato equilibrio tra una breve stagione buona, nella quale si cercava di ricavare il massimo possibile da ogni zolla di terra, e l'inverno durante il quale le scorte accumulate rendevano possibile il "letargo" degli uomini e degli animali. Si trattava necessariamente di un'economia mista, fondata sull'allevamento del bestiame e la lavorazione del latte da una parte, e sull'agricoltura di alta montagna dall'altra. La coltivazione dei cereali, essenziale alla sopravvivenza umana, fu praticata dai Walser anche negli insediamenti posti ad altitudini estreme.
Il vero mestiere del colono walser delle origini però, prima ancora che quello dell'allevatore coltivatore, era quello del colonizzatore dissodatore. Dopo aver ridotto a coltura un territorio e ricavato da esso un certo numero di Höfe, nel nuovo insediamento si fermava solitamente uno soltanto dei figli della famiglia colonica. La sopravvivenza nell'Hof, in un'economia rigidamente autarchica, era infatti spesso impossibile per più di un figlio e per la loro famiglia. Gli altri quindi riprendevano il cammino migrante dei loro padri e cercavano in altre valli nuove terre da disboscare e alpeggi da trasformare in Höfe.
L'alta Valsesia (Pietre Gemelle, Rima, Carcoforo, Rimella, Campello) è un tipico esempio di questo modello di colonizzazione a «tappe», che aveva il ritmo delle generazioni. L'insediamento di Alagna avvenne a cavallo del 1300, fondato da famiglie coloniche provenienti sia da Macugnaga sia dalla valle di Gressoney, dove i Walser si erano stabiliti in varie fasi, fin dall'inizio del '200. I coloni di Pedemonte erano venuti da Macugnaga. Quelli di Otro e della Peccia (in Val Vogna) da Gressoney. A metà del '300era ormai terminata la colonizzazione del territorio dell'antica Pietre Gemelle, e in quegli anni i Walser di Alagna intrapresero la colonizzazione delle adiacenti valli di Rima e di Carcoforo.
Rimella, fondata a metà del '200, è la più antica colonia walser della Valsesia. Qui il capitolo di San Giulio possedeva quote di alpi (Rimella e Rondo) fin dall'inizio dell'XI secolo; possessi che si andarono consolidando nel corso della prima metà del XIII secolo. L'insediamento di un gruppo di coloni walser sugli alpi di Rimella e di Rondo ebbe inizio nell'estate 1255, quando Giovanni filius ser Petri deTerminion [Visper Terminen], Anselmo de Monte [valle di Saas] e suo figlio Pietro, ottennero l'investitura degli alpi di San Giulio e il diritto di costruire un mulino, segno che l'insediamento era destinato ad avere carattere permanente. Tra l'estate del 1255 e l'autunno del 1256 si insediò a Rimella una seconda compagnia di 11 coloni provenienti dalle valli di Saas, di Visp e del Sempione. L'11 novembre 1256 l'intero gruppo si recò all'isola di San Giulio, dove, alla presenza del capitolo dei canonici, costituì una società colonica per lo sfruttamento degli alpi. La società venne divisa in 12 quote familiari, con la comunione dei pascoli, delle foreste e delle acque. Il capitolo concesse in perpetuo ai coloni il diritto di abitare, fabbricare case e mulini, tagliare il bosco e trarre con qualunque mezzo i prodotti dei monti e della terra, liberamente e pacificamente. I coloni, le loro famiglie e i loro eredi, assunsero lo status di districabiles predicti capituli cum honere et districtu quoad iurisdictionem et contenciosam et voluntariam, cioè la piena giurisdizione del preposito del capitolo; né più né meno dei coloni di Macugnaga o di Alagna, che avevano assunto quella dei rispettivi abati.
Oltre al canone ereditario di 8 lire imperiali alla festa di San Martino, i coloni si impegnarono a riconoscere al capitolo la «decima» degli agnelli, capretti o porcelli, di ogni messe e di ogni frutto; a meno che non venissero costretti con la violenza a consegnarla ad altri. Caso, questo, non certo infrequente, per pacifici contadini di montagna quali erano i Walser. A Rimella - come rivelano altre pergamene del Capitolo di San Giulio - nel 1260 gli inermi coloni si videro infatti rapinare ben 70 animali dagli uomini della Pieve di Omegna. «Gli abitanti degli alpi della chiesa di San Giulio dell'Isola» invocarono allora la protezione del Capitolo. Il preposito di San Giulio ottenne che venisse intimata la scomunica contro i predatori e Ottone Visconti (il fondatore della dinastia dei signori di Milano era in quell'anno podestà di Novara) intimò agli uomini della Pieve di non molestare né depredare quei pacifici montanari.
L'archivio del Capitolo di San Giulio conserva numerose altre pergamene che risalgono al XIV secolo, relative a Rimella. Trattano l'esercizio della giurisdizione da parte del capitolo, il rinnovo dell'investitura ereditaria del 1255 1256, o il pagamento dei canoni alla festa di San Martino, quando i rappresentanti dei coloni scendevano dalle montagne, attraversavano in barca il lago d'Orta e raggiungevano l'isola dove erano trattenuti a pranzo alla mensa dei canonici. Alcune pergamene del XIV secolo forniscono notizie sui rapporti tra i coloni e il capitolo, o sulle assemblee della ancor piccola comunità rimellese che si tenevano presso la chiesa di San Michele, alla Villa. All'assemblea del 1335 intervennero 31 capi famiglia. L'opera di dissodamento era ancora in pieno svolgimento, come mostra l'apporto di nuove famiglie coloniche provenienti dalla valle di Saas. L'ultimo documento in cui compaiano diritti di proprietà del capitolo di San Giulio a Rimella è del 1394, quando a versare il canone annuo d'affitto fu per la prima volta il «console del comune», Johannes de Termignono.
Con modalità analoghe a quelle dei coloni che da Alagna si trasferirono, negli stessi anni, in Val Sermenza, da Rimella, nel corso del XIV XV secolo, i Walser occuparono la testata della adiacente Valle Strona. Nel XIII secolo la testata della valle era già sfruttata, «da tempo immemorabile» come alpeggio estivo del monastero di san Graciniano di Arona, il cui archivio (oggi nell'Archivio di Stato di Torino) conserva una decina di pergamene, tra il 1200 e il 1400, che consentono di ricostruire la situazione di sfruttamento degli alpeggi nell'attuale territorio di Campello.
Alla fine del XIII secolo inalpavano mandrie provenienti dal lago d'Orta, le quali raggiungevano i pascoli del Capezzone, dopo un viaggio sui barconi che risalivano la Toce, e dopo aver valicato la colma di Ravinella che collega la Valle Strona alla bassa Ossola. All'inizio del XIV secolo, gli alpeggi di san Graciniano vennero concessi, per il canone annuo di 3 fiorini d'oro e un «mascarpino» (piccola forma di mascarpa), ai signori di Crusinallo, intermediari tra l'abate e i pastori che sfruttavano l'alpe. I Crusinallo avevano qui lo stesso ruolo di «avogadri» esercitato dai Visconti a Macugnaga, alpeggio anch'esso appartenente ai benedettini di Arona. Nel 1338 il monastero venne in lite con i Crusinallo, signori di molte terre in Valle Strona. É probabile che la controversia, relativa alla gestione degli alpeggi, di cui sfuggono i contorni precisi, abbia riguardato proprio la concessione degli alpeggi del monastero ai coloni walser di Rimella.
Dopo il 1338 le concessioni dei tre alpeggi del monastero (Capezzone, Pennino e Penninetto), avranno sempre per destinatari i Walser rimellesi. Ma i contratti d'affitto, a coloni diversi in tempi diversi, hanno ancora tutti la durata di nove anni. Ed ancora nel 1432, quando l'abate concede i tre alpi monastici a Milano detto «Nigro» figlio di Antoniolo della Rocca, abitante a Varallo, per il canone annuo di 22 lire imperiali e 12 libbre di Mascarpino, l'affitto durerà nove anni.
Milano della Rocca, esponente di una famiglia aristocratica valsesiana, compare nell'atto non già in rappresentanza dei pastori che sfruttavano gli alpi, ma nella veste di intermediario tra l'abate di Arona e i Walser di Rimella. Era infatti consuetudine che i contratti di affitto delle terre dei monasteri non venissero stipulati direttamente dall'abate, ma da mediatori, che avevano il compito di provvedere alla conduzione degli alpi e all'esazione dei fitti. In qualche modo «appaltatori» dello sfruttamento della terra (in questo caso degli alpeggi), essi versavano al monastero il canone di concessione e si curavano di tutto quanto riguardava il buon andamento del contratto, la conduzione dell'impresa, il rispetto dei confini, la manutenzione e il miglioramento dell'alpe. Una figura, questa dell'intermediario tra la signoria religiosa e gli alpigiani (in qualche caso compare con il nome di «fideiussore»), molto simile a quella dell'«avogadro». L'abate, che per il fatto stesso di essere un prelato non poteva adempiere personalmente alle molte funzioni giurisdizionali e amministrative di cui era titolare, era normalmente rappresentato da un avogadro laico nei numerosi negozi inerenti l'amministrazione del patrimonio ed in particolare i contratti fondiari. Solitamente le funzioni di avogadro erano svolte ereditariamente dai membri di una stessa famiglia; ed è significativo come, in Valsesia, le funzioni di rappresentante sia della mensa vescovile di Novara sia del monastero di San Nazaro di Biandrate, nella prima metà del XV secolo, fossero ricoperte principalmente dalla famiglia dei della Rocca (Roccapietra), da cui discende Milano detto «Nigro», che agisce nei contratti in esame quale amministratore degli alpi del Monastero di Arona sfruttati dai Walser di Rimella. Non è difficile intuire in questa contemporanea presenza della stessa famiglia nella conduzione degli alpi di più enti monastici in Valsesia, un disegno unitario nell'iniziativa di promuovere con la colonizzazione walser un migliore sfruttamento di quelle alte terre.
Anche nell'ultimo contratto di concessione «novennale» degli alpi Capezzone, Pennino e Penninetto, che risale al 1442, compare quale beneficiario dell'investitura Milano detto «Nigro» della Rocca. La pergamena del 1442, nel descrivere minuziosamente i confini del possedimento monastico, è la prima che citi il toponimo «Campello»: «ab una parte alpis Cayme [Cama], ab alia territorium de Campello, ab alia flumen Strone, ab alia alpis Agaroni [Nagarone], ab alia alpis Zevie [Cevio], ab alia alpis Ronde [Ronda], ab alia alpis Scarampogli [Scarpignano], ab alia alpis Cardeli, ab alia alpis Reorte et ab alia alpis Binerere [in valle Anzasca]». Che Campello fosse allora un luogo già abitato, magari da valligiani della Strona, a me pare da escludere, per almeno due ragioni. La prima è che il toponimo non era mai comparso, prima di quell'anno, tra le «coerenze» degli alpi del monastero. Ed è perciò impensabile che fosse un toponimo importante, quale necessariamente è un luogo abitato. La seconda è che il territorio del Monastero, fatto oggetto di molti contratti di locazione, abbracciava un'area così vasta, dalle creste alle acque dello Strona, da circoscrivere il «territorium de Campello» ad un piccolo luogo stretto tra i pascoli e il torrente: probabilmente il breve spazio di un campicello (campello). Anche il diminutivo non è certo privo di significato. Un insediamento permanente a Campello pare perciò difficile da immaginare, se non connesso con lo sfruttamento degli alpi del monastero. Non si può però escludere che il toponimo «Campello» sia comparso nel 1442 perché in quegli anni, ad opera degli stessi walser di Rimella che sfruttavano gli alpeggi del monastero di Arona, era appena avvenuto in quel luogo un primitivo insediamento walser.
Il caso offre numerose analogie: basti pensare a Bosco Gurin, in Valle Maggia, e forse a Carcoforo stesso, in Valsesia. É probabile che anche a Campello, come a Bosco e a Carcoforo, il primitivo insediamento sia avvenuto al piede dell'alpe: una sorta di stazione di carico, alla soglia dei pascoli: luoghi al di fuori dei confini monastici, dove era più facile acquisire la «proprietà» del suolo, importante premessa per la costruzione di dimore stabili.
Analogamente alle due testate della Val Sermenza (Rima e Carcoforo) è probabile che famiglie di Rimella, che sfruttavano gli alpi del monastero, abbiano fondato i loro insediamenti invernali a Campello. E che in quegli anni - nella prima metà del '400 - sia maturato l'insediamento permanente walser.
Che qualche cosa di importante e di decisivo stesse avvenendo in quel tempo in alta Valle Strona, è dimostrato d'altra parte da una pergamena del 1448, quando finalmente l'affitto novennale dei tre alpi monastici lascia posto ad un contratto di affitto perpetuo, ed il concessionario non è più un intermediario, come Milano della Rocca, ma direttamente la Comunità Walser di Rimella.
Il 21 novembre 1448, l'abate Sorino de Balbis, davanti al capitolo dei monaci di San Graciniano e Felino di Arona, ratifica solennemente «l'investitura in enfiteusi perpetua ed in perpetuo fitto livellario a titolo e sotto il nome di locazione livellaria perpetua» della metà pro indiviso degli alpi «Capesoni, Penini e Penineti, giacenti nel territorio di Valle Strona, Pieve di Omegna, Diocesi di Novara», ad Angelino fu Giovanni Bagossi di Rimella, che riceve per conto dell'intera comunità di Rimella, impegnandosi a versare in perpetuo, ogni anno il giorno di San Martino, a Varallo al rappresentante dell'abate, il canone enfiteutico di 12 lire imperiali.
L'atto non chiarisce il motivo per cui l'investitura riguarda solo la metà indivisa, mentre i precedenti contratti si riferivano agli alpi nella loro interezza. Ma su di un altro, apparentemente strano, passaggio del documento - fondamentale per la storia di Campello - occorre soffermarsi. Nell'atto si dice infatti che l'investitura avviene con l'autorizzazione del Prevosto di Borgosesia «apostolico commissario e delegato dal Papa Nicolao IV» in virtù di lettera papale data a Roma il giorno di San Pietro del 1448. Commissario e delegato a quale atto? Evidentemente ad accertare che la trasformazione del contratto novennale in perpetuo non pregiudicasse l'interesse del monastero. Tutto ciò si può comprendere solo prestando attenzione a quanto era avvenuto in Valsesia, pochi anni prima, per gli alpi della Mensa vescovile novarese. E va notato come anche in quel caso il commissario apostolico fosse il prevosto di Borgosesia.
Il caso della Mensa è così ben documentato, da doverlo richiamare brevemente, per la straordinaria analogia che presenta con quello di Campello. Fino all'inizio del XV secolo infatti, anche gli alpi della Mensa vescovile furono affittati di anno in anno, ad alpigiani che vi salivano d'estate con le loro mandrie. E solo in quegli anni il passaggio dalla concessione temporanea alla concessione perpetua consentì ai Walser la trasformazione sistematica degli alpeggi in insediamenti permanenti. Questo passaggio è ben documentato da un rotolo pergamenaceo conservato nell'Archivio Storico Diocesano Novarese (da me studiato nel recente volume Carcoforo, Fondazione Monti, 1994).
Nel 1419, in seguito ad una specifica richiesta del vescovo di Novara Pietro de Giorgi, il Papa Martino V affida al prevosto di Borgosesia Antonio de Raxellis l'incarico di verificare se convenisse veramente al vescovo, così come egli asseriva, sostituire a contratti di affitto temporaneo contratti di affitto ereditario perpetuo. Si sarebbe trattato, per il vescovo, di spogliarsi praticamente del «dominio utile» di quegli alpi, limitandosi a conservarne il «dominio diretto» che consisteva nella nuda titolarità del bene (o «proprietà della rendita», come affermano i giuristi per sottolineare la spogliazione di ogni altro diritto che non fosse la rendita perpetua, oltretutto immutabile nel tempo). L'affitto perpetuo avrebbe però consentito al vescovo di trarre dallo sfruttamento dell'alpe un maggior utile, ed all'alpe stesso di essere proficuamente dissodato e colonizzato. L'autorizzazione ad un mutamento, non certo marginale, nel regime giuridico di beni che appartenevano da secoli alla Mensa vescovile, competeva al Papa, il quale, non conoscendo i luoghi e la convenienza economica della trasformazione fondiaria che si stava attuando, investì del problema un suo delegato in loco: il prevosto di Borgosesia. L'istruttoria processuale che ne seguì è per certi aspetti il documento più illuminante dell'intera colonizzazione walser. Essa si svolse nel palazzotto del Comune di Orta il 30 luglio 1420. Alla presenza del rappresentante del vescovo, dei testi e del notaio, il delegato del papa, Antonio de Raxellis prevosto di Borgosesia, esibite le lettere pontificie, procedette ad accertare se la concessione di questi alpi ai coloni in affitto perpetuo incontrasse o meno l'interesse della Mensa vescovile, chiamando sette testimoni, scelti tra persone particolarmente attendibili e competenti. Le argomentate risposte che i sette saggi fornirono, rappresentano una delle testimonianze più preziose, ancorché sconosciute, non solo sulla colonizzazione in Valle Sermenza, ma sulle ragioni stesse che mossero l'intera opera walser di trasformazione degli alti pascoli alpini in colonie umane permanenti. Queste voci, autentiche, che risalgono all'inizio del XV secolo, sono la spiegazione più vera dell'antica domanda «chi sono i Walser e quali cause, economiche o sociali, mossero la loro così vasta impresa colonizzatrice?». Uno dei testimoni è Antonio Draghetti di Varallo, che per oltre trenta anni ha avuto diretta esperienza come mediatore di fittanze per conto della Mensa vescovile. Interrogato sull'utilità di abbandonare i vecchi usi dei fitti temporanei, risponde che dopo aver ricevuto le terre in eredità i fittabili vi edificherebbero case e cascine, bonificherebbero campi e prati e l'utile dei coloni e della mensa crescerebbe. La testimonianza più significativa fu però quella di un Walser di Pietre Gemelle, Giovanni Manetta fu Zanoli, il quale, chiamato a deporre sulla pratica walser di ricevere gli alpi in affitto perpetuo e di trasformarli, con il dissodamento, in fattorie d'alta quota abitate stabilmente, risponde: «É vero: quando il colono riceve in affitto una terra "a tempo" non si cura di avviare miglioramenti di sorta sui beni investiti. Se invece riceve le terre in affitto perpetuo, in questo caso l'enfiteuta, detto anche colono, promuove grandi miglioramenti sugli alpi stessi, rendendo più fertile la terra e ricavandone maggiori frutti, anche a vantaggio del vescovo che ne viene a ricavare un affitto maggiore, ed egli stesso volentieri sarebbe disposto a ricevere in enfiteusi gli alpi stessi, per il canone d'affitto sopra indicato, impegnandosi a migliorarli». La sentenza del prevosto di Borgosesia, che chiude il processo di Orta, non poté che essere favorevole alla concessione degli alpi in enfiteusi perpetua.
Lo stesso dovette avvenire pochi anni dopo, nel 1448, per gli alpi dei benedettini di Arona qui a Campello. Identici i personaggi (il prevosto di Borgosesia, i Della Rocca...), la procedura dell'autorizzazione papale, le cause e finalità della trasformazione dell'affitto temporaneo in affitto perpetuo. La ricca documentazione degli alpeggi della Mensa novarese in Valsesia, applicata analogicamente al caso di Campello, chiarisce soprattutto la grande «utilità» per tutti, concedente e concessionari, della colonizzazione operata dai Walser, mediante il disboscamento e la fondazione di un insediamento colonico a Campello.
Nove anni dopo, il 12 novembre 1457 - come rivela una pergamena del monastero aronese oggi in Archivio Borromeo (Archivio Borromeo Isola Bella, Corporazioni Religiose, Arona. Monastero di San Graciniano) - quando alla riscossione del canone livellario degli alpi di Campello da parte della comunità di Rimella è subentrato il nuovo abate Francesco Borromeo - Campello non compare ancora tra i toponimi citati, del vasto comprensorio alpestre dalla cresta delle montagne «usque in aqua seu valle» dello Strona: conferma di come la nuova piccola comunità walser, filiata da quella di Rimella, si stesse ancora formando, in quei decenni del '400.
Questi documenti rari e preziosi del monastero di Arona, gettano così un po' di luce sulla venuta dei Walser a Campello, lasciandone intuire un'origine non molto dissimile dalla tradizione e da un manoscritto settecentesco di memorie campellesi, che riferisce come «in principio questo luogo fosse un alpe di quei di Rimella, che essendo stati obbligati a qui fermarsi colle loro bestie in inverno a causa della neve caduta per tempo in seguito abbiano continuato» ad abitarvi stabilmente.

Kampell: 1904

Kampell: 1904

PERIODO DI AUTONOMIA COMUNALE (1814-1929)

Il Comune autonomo di Campello Monti, durato 115 anni, cioè dal 7 dicembre 1814 al 18 febbraio 1929.
Il primo atto ufficiale del neo Comune di Campello è il 7 aprile 1815 l'elezione del primo sindaco, nella persona di Francesco Guglianetti fu Antonio, e di due consiglieri.
Da allora molti sindaci si sono avvicendati alla guida della vita comunale della piccola comunità dell'alta Valle Strona affrontando difficoltà di ogni genere. Potevano essere problemi di natura ambientale, sociale, economica, o altro.
L'ambiente ha sempre creato una minaccia per gli abitanti di Campello che, anche nel periodo di autonomia comunale, fu più volte bersaglio di gravi disgrazie. Nel 1834 un inondazione al Gabbio distrugge e rovina le case rimaste scampate a una enorme frana del 1701.
Il 14 marzo 1837 una grossa valanga attraversa letteralmente il paese danneggiando molte case.
Il 1° marzo 1843 esattamente, il giorno delle ceneri, scoppiò un tremendo incendio che distrusse ben 15 case completamente e ne danneggiò altre 28, provocando un danno accertato di 87.000 lire nuove di Piemonte.
Gli abitanti di Campello, seppur colpiti duramente da queste disgrazie, hanno sempre saputo andare avanti coraggiosamente e caparbiamente e come mostreremo, sia con gli aspetti demografici che con quelli economici, non deve essere stato facile. Eppure ciò è stato possibile e, anzi, il Comune ricco con i bilanci in attivo.
L'ultimo Podestà di Campello Monti, Enrico Tensi, rimetterà al nuovo Podestà il Comm. Costantino Cane tutte le attività della località consistenti in:
Lire 60.900 in tredici cartelle di Rendita e Consolidato con un reddito annuo di lire 1760.
Lire 33.000 circa, residuo attivo capitale oltre il fondo cassa.
Lire 28.000 circa, in undici cartelle di rendita annua di lire 1.546,50 che subì in seguito qualche diminuzione per riduzione del tasso interessi di spettanza della Congregazione di Carità e lasciti annessi.
Tutto il patrimonio di ragguardevole valore e da secoli conservato dei suoi boschi in piena efficienza.
I residui passivi di Campello sono di importi trascurabili.
Fonte: don G. Zolla, A. Tensi, Campello Monti, Omegna, 1940, pp. 163.

Analizziamo ora la situazione demografica e quella economica del periodo dell'autonomia comunale di Campello Monti.

Situazione demografica
Ecco i dati relativi alla situazione demografica del Comune di Campello Monti:
La situazione demografica di Campello Monti dal 1813 al 1928.

Anno Residenti a Campello  
1813 192 dal testo Zolla-Tensi.
1818 197 Archivio di Valstrona.
1820 195 idem
1823 198 idem
1825 198 idem
1830 175 idem
1850 118 dal testo Zolla-Tensi.
1861 85 Archivio di Stato di Verbania, Censimento del 1861.
Archivio di Valstrona.
1861 104 dal testo "Demografia Provinciale.
1871 95 dal testo "Demografia Provinciale.
1880 84 aus dem Archiv Zolla-Tensi
1881 84 dal testo "Demografia Provinciale.
1901 73 dal testo Zolla-Tensi.
1911 66 dal testo "Demografia Provinciale.
1921 79 dal testo "Demografia Provinciale.
1925 54 dal testo Zolla-Tensi.
1928 54 dal testo Zolla-Tensi.


Fonte: Archivio Comunale di Valstrona: Censimenti Generali della Popolazione del 1861, 1881. Archivio Comunale di Valstrona, sezione Archivio Storico Comunale di Campello Monti, Notizie statistiche relative al Comune, busta 68, fascicolo 5. Archivio di Stato di Verbania: Dati del Censimento Generale della Popolazione del 1861. I testi: don G. Zolla, A. Tensi, Campello Monti, Omegna, 1940; L. Cerutti, G. Melloni, E. Rizzi, La Valle Strona, a cura della Fondazione arch. Enrico Monti con il patrocinio del Lions Club di Omegna, 1975; Demografia Provinciale, evoluzione della popolazione nei comuni, CCIAA- Novara Camera Commercio Industria Artigianato Agricoltura, Novara, 1992.

La tabella riportata, attingendo a varie fonti, crea un quadro relativo alla situazione demografica di Campello Monti dal 1813, data più vicina all'anno dell'autonomia comunale, al 1928, anno precedente riforma amministrativa fascista.
Esistono, però, per il 1861 discrepanze di dati. Per il 1861 abbiamo due cifre: 85 e 104. Il primo dato 85 è stato rintracciato nell'Archivio di Stato di Verbania consultando i valori finali del Censimento dell'anno considerato, nell'Archivio Comunale di Valstrona, nella sezione dell'Archivio Storico di Campello, dove vi erano sia le cifre del Censimento del 1861 ma anche i relativi fogli di famiglia e c'è corrispondenza.
Il secondo dato 104 è presente solo nel testo di Demografia Provinciale e, pertanto, pur riportandolo nella tabella sarà considerato solo parzialmente perché la cifra 85 è avvalorata da maggiori prove.
La tabella mostra come la popolazione di Campello subisca una diminuzione nel corso dei 115 anni considerati.
Dal 1813 al 1825 il numero di abitanti si aggira mediamente sulle 195 unità e pertanto manteneva un certo equilibrio dal 1749 quando gli abitanti erano 190.
La situazione muta dal 1830 in poi perché in quest'anno si contano 175 persone e la fase di decremento è destinata a peggiorare con la perdita di quasi sessanta unità in circa vent'anni.
Nel 1850, infatti, gli abitanti di Campello sono 118 per un totale di 38 famiglie. Il testo Zolla-Tensi riporta anche la distribuzione delle persone e delle famiglie nelle singole frazioni: Campello centro 22 famiglie con 66 persone, Valdo una famiglia con 7 persone, Tapone 7 famiglie con 22 persone, Pianpennino 8 famiglie con 23 persone. In un arco di 37 anni vi è stato un calo di 74 unità. Questi sono stati gli anni drammatici delle valanghe, delle alluvioni e del grave incendio del 1843. Molte le persone che hanno perso la vita, tante le famiglie che hanno avuto la casa distrutta e gli animali uccisi quindi è possibile che di questi alcuni abbiano preferito ricominciare una nuova vita da altre parti.
Il primo Censimento Generale della Popolazione del Regno di Italia del 1861 registra a Campello 85 presenze, 33 unità in meno in soli 11 anni.
E' possibile grazie ai fogli di famiglia vedere che a Campello capoluogo vi sono 24 famiglie con 56 persone, alla frazione Valdo una con 6 persone, alla frazione Tapone 4 con 10 persone, alla frazione Pianpennino 6 con 13 persone. Grazie a questi documenti scopriamo che ben 33 campellesi risiedono all'estero e i loro nomi sono nel foglio di famiglia ma in una sezione a sé e non sono stati conteggiati dal censimento proprio perché residenti all'estero.
Interessantissimo notare che il numero degli emigrati corrisponde esattamente al numero di unità, 33, che sono venute meno dal 1850, ma, non disponendo di fogli di famiglia per il 1850, lo stesso numero può essere anche una coincidenza.
Cosa certa è che dei 33 emigranti 26 erano uomini e 7 donne, mogli o figlie giovani degli stessi. L'età di questi lavoratori comprendeva varie fasce: da giovanissimi di 12/15 anni, a molti uomini sui 25/30 anni, a uomini maturi di più di 60 anni. La maggior parte erano celibi ma vi erano anche diversi coniugati e di questi solo tre si erano portati al seguito le mogli. Le professioni erano: peltraio, chincagliere, stagnaio, tornitore, litografo, garzone di negozio o operaio di fabbrica. I luoghi: Baviera, Torino, Parigi, Milano, Chivasso, Forno.
Il 1871 registra 95 residenti quindi un incremento di 10 persone.
Nel 1881 si ridiscende a 84 così ripartiti: 13 famiglie con 56 persone a Campello centro, 5 famiglie con 11 persone a Tapone, 6 famiglie con 17 persone a Pianpennino; non compare da nessuna parte la frazione Valdo e ciò lascia supporre che in quel periodo non vi vivesse più nessuno.
Mancando dati relativi al 1891 dobbiamo analizzare il 1901 in cui sono annotate, dal testo Demografia Provinciale, 73 presenze. Stessa fonte per il 1911 dove invece si scende a 66 persone e per il 1921 con 79. Fonte per il 1925 con 54 abitanti e per il 1928 con 54 è il testo Zolla-Tensi.
Le informazioni storiche relative a questi anni non sono state rintracciate nell'Archivio di Valstrona e non è plausibile aver notizie su chi vivesse a Campello in quegli anni.
Da questo quadro emerge una situazione demografica allarmante in quanto nel giro di 115 anni il Comune di Campello Monti è passato da 192 abitanti a 54 perdendo quindi 138 unità.
L'abbandono del paese dal 1928 in poi sarà un fenomeno progressivo ed inesorabile che terminerà con la fine della vita del paese stesso.

ASPETTI DEL MODELLO ECONOMICO TRADIZIONALE

Le principali attività economiche a cui si dedicavano gli abitanti di Campello Monti erano quelle legate al mondo che li circondava: l'agricoltura, l'allevamento. Ma erano anche ottimi artigiani del legno, palai, tornitori, peltrai e, nei momenti di crisi, emigravano portando con sé questa importante tradizione manifatturiera.
Nell'800 a queste attività antiche si aggiunse il lavoro nelle miniere di nichelio e altri minerali che offrivano lavoro ad operai e minatori.
Un'entrata molto consistente per le casse comunali o quelle parrocchiali, ma allo stesso tempo alquanto particolare, era data dai lasciti testamentari di campellesi che non avevano eredi.
Tutti questi aspetti economici, tranne la mineralogia, sono gli stessi per tutta la storia di Campello Monti. La maggior quantità di dati, però, rintracciati nell'Archivio di Valstrona risalgono a periodi più recenti esattamente dal 1930 in poi. Per il periodo di autonomia Comunale dovremo rifarci esclusivamente a dati statistici relativi al periodo 1818-1835.

L'agricoltura non rappresentò mai, per Campello Monti, una vera fonte di reddito a causa del clima rigido e delle pendici montane troppo ripide.
La frazione di Campello, pure disponendo di una superficie territoriale di ben 1288 ettari e, per tanto, seconda per estensione solo a Forno (1815,83 ettari), a causa della sua altitudine, 1305 m. s.l.m., e della conformazione orografica risulta non possedere terreni adibiti a colture di vario genere mentre pascoli, boschi e soprattutto terreni incolti o non produttivi ricoprono un'estensione piuttosto elevata.

Un'innegabile ricchezza della Valle Strona e di Campello è la superficie boschiva.
Il legname usato dai campellesi, in un lontano passato, come materiale di costruzione delle parti interne delle proprie abitazioni e fonte di guadagno per i commercianti diventò, dopo la redazione dei Bandi Campestri, un patrimonio da utilizzare con parsimonia. Il bosco, infatti, era l'unica difesa contro le valanghe e, pertanto, tutti dovevano salvaguardarlo e rispettarlo.
Questa politica dei campellesi, resa necessaria dall'ambiente stesso in cui vivevano, permise alla comunità di accumulare nei secoli un enorme patrimonio e di essere la voce più cospicua nelle entrate dei Bilanci Consuntivi Comunali.
Nel 1917-20 il ricavo dalla vendita del taglio dei boschi comunali ammonta a £ 42.250,03 mentre, ad esempio, la voce relativa alle tasse comunali sul bestiame è di £ 4.130,94. La sola vendita di legname riusciva da sola a coprire tutte le spese della colonia.
La popolazione, comunque grazie a notevoli fatiche, traeva almeno un minimo di prodotti per la propria autosufficienza quali le patate, le rape, fagioli e il fieno per gli animali. Ogni famiglia possedeva anche, vicino casa, un piccolo orto in cui coltivava verdure.
Un'altra occasione di scambio, dei propri prodotti con altri necessari che non si producevano, era il mercato di Omegna il Giovedì. Le donne vendevano: formaggi, burro, uova, latte, sacchi di foglie secche di faggio per il materassino dei bambini, e con il denaro guadagnato acquistavano: farina, pane, riso e altre vettovaglie, nonché fili da ricamo e tela per il corredo delle ragazze.
Patate e fieno sono gli unici prodotti su cui poggia l'agricoltura campellese. Gli stessi amministratori annotano le seguenti parole nella voce osservazioni delle statistiche: "Nel Comune di Campello non si fa raccolto di formento, segale, meliga ed altra specie, tranne quella del fieno." Dicono anche: "Non formento, segale, orzo, meliga, miglio, maraschi, canapa, castagne, avena, noci, vino, cavalli, muli si raccoglie."
Le condizioni climatiche nella produzione sono determinanti e, come si vede in alcune delle osservazioni, sono gli stessi compilatori delle statistiche ad evidenziare questi aspetti. La maggiore produzione di fieno è dovuta ad autunni belli che consentono altri tagli la scarsità di patate è influenzata da primavere fredde.
E' interessante la specificazione, per il 1818, dei tipi di fieno purtroppo non disponibile per gli altri anni.

L'allevamento del bestiame a Campello è un'attività antica. La tradizione, infatti, vuole che la stessa colonia sia stata fondata da pastori in cerca di nuovi pascoli. Ma l'allevamento è anche una necessità fondamentale in un luogo, come questo, dove l'agricoltura è molto scarsa.
(campello2)
Si allevavano bovini, caprini e ovini ma esistevano severe indicazioni per il loro pascolo. Nei Bandi Campestri del 1792 si diceva tassativamente che il pascolo degli armenti doveva avvenire nell'alpeggio e quindi era vietato nei prati grassi o magri, anche se privati, o vicino agli orti.
Queste norme e le salatissime multe per i trasgressori erano necessarie per salvaguardare la sopravvivenza della stessa colonia.

L'economia montana dei Walser, e non solo, è una necessaria combinazione tra agricoltura, allevamento e pastorizia cioè l'Alpwirtschaft. I luoghi dove avviene la produzione sono la zona circostante il villaggio e i pascoli d'alta quota, cioè gli alpeggi.
Questo permetteva un migliore sfruttamento della vegetazione, il cui ciclo vitale è regolato dall'altitudine .
La vita all'alpe, legata al risveglio estivo della natura, era fatta del duro lavoro di tutti per trarre le maggiori risorse per il lungo inverno. Le giornate iniziavano prima dell'alba con la mungitura degli animali da latte continuavano col portare al pascolo tutti gli armenti, con la caseificazione del formaggio. A fine giornata la famiglia stanca si ritrovava attorno al lume a raccontarsi storie o a pregare.
Unico e vero soggetto attivo della conduzione dell'alpe era la donna . Emigrati gli uomini in cerca di fortuna o rimasti in paese a coltivare i campi lì, le donne con i figli più piccoli ed i parenti anziani erano gli unici abitanti degli alpeggi. Tutti i lavori, specie quelli più pesanti, toccavano alle donne le uniche, in questo frangente, in grado di occuparsene.
Questo modello di conduzione dell'alpeggio individuale è alquanto comune nelle società walser mentre altre comunità alpine, invece di trasferire l'intera popolazione all'alpe, mandavano in montagna un pastore "professionista" che si occupava di tutti gli animali del villaggio.
Gli alpeggi che circondavano Campello Monti erano molti e situati a varie altitudini e di dimensioni diverse; furono per secoli una vera ricchezza per la colonia che attorno al villaggio poteva offrire pochi pascoli , soprattutto, perché offrivano buone possibilità di carico di bestiame.

Gli alpeggi sono stati i primi ad avvertire i sintomi dell'abbandono progressivo della montagna dal dopo guerra in poi perché loro stessi sono stati i primi ad essere lasciati al loro destino.
Oggi moltissime casere sono state spazzate via dalle valanghe o di loro rimangono solo macerie, alcune sono state trasformate in baite turistiche, perdendo la loro originaria funzione, pochissime sono rimaste alpeggi.
La morte della figura dell'alpigiano non equivale solo alla sparizione di una figura tipica ma è sinonimo di una perdita di legame con la montagna. L'alpigiano dagli alti pascoli non prendeva solo, ma con le sue opere rendeva più sicura la montagna e favoriva il mantenimento del normale equilibrio naturale.

A Campello, come in tutta la Valle Strona, hanno sede mineralizzazioni metallifere. Tre sono i minerali presenti: limonite ( idrossido di ferro ), pirrotina ( solfuro di ferro ) associata a calcopirite ( solfuro di ferro e rame ), e pentlandite ( solfuro di nichel e ferro ). Nel secolo scorso nel paese Walser fu individuata anche una piccola vena aurifera, dove, però, l'oro era associato a pirite e non distinguibile a occhio nudo.
A metà del 1800 si iniziò lo sfruttamento dei giacimenti che, però, vennero chiusi prima della fine del secolo. Solo nel periodo di autarchia e durante la seconda guerra mondiale, quindi dal 1936 al 1943, l'attività estrattiva fu ripresa dalla Società Nichelio e Metalli Nobili che a proprie spese allargò la strada mulattiera Forno-Campello per renderla carrozzabile e consentire il trasporto del materiale. L'estrazione cessò nel 1944.
Negli anni in cui l'attività estrattiva era attiva, la miniera rappresentò una importante risorsa economica per il paese perché offriva lavoro agli uomini, per l'attività estrattiva, e alle donne per il trasporto a spalla del minerale fino a Forno, non esistendo ancora la strada. Inoltre richiamò a Campello diverse famiglia da varie zone. Ciò è dimostrato guardando i fogli di famiglia dei nuovi residenti dove, per gli uomini, alla voce professione compare la dicitura minatore .

Come del resto ancora oggi in tutta la Valle Strona, l'artigianato è sempre stato un settore trainante dell'economia grazie alla qualità stessa dei prodotti. A Campello Monti questa attività serviva ad integrare le entrate dell'allevamento e della pastorizia.

Lavorazione del legno
Gli uomini erano abili nell'arte della lavorazione del legno. Costruivano arnesi ed utensili per la casa.
Per molti campellesi la professione di falegname si apprendeva dal padre o comunque in paese poi, emigrando all'estero diventava una buona fonte di reddito per l'intera famiglia.
Anche molti tornitori lasciarono il paese per girare a riparare e costruire oggetti.

Lavorazione del peltro
L'artigianato del peltro fu, in passato, la professione più diffusa in tutta la Valle Strona ed è possibile parlare di un'autentica scuola di peltrai valstronesi.
La lavorazione di questo materiale in Italia, a parte la Valle d'Aosta per influenze estere, non era molto praticata e probabilmente gli abitanti della valle la conobbero durante le loro emigrazioni.
Realizzarono vasi, piatti, boccali, caraffe, candelieri, lucerne, oggetti religiosi come crocefissi, acquasantiere, calici, ma anche giocattoli e soldatini.
I Campellesi trovavano la loro fortuna di peltrai in Germania soprattutto in Baviera. La famiglia Guglianetti, per esempio, diventò ricca lavorando in una città della Baviera.
Il benessere dovuto alla lavorazione del peltro, e quindi alla conseguente emigrazione, nel secolo scorso, con la crisi del peltro in Germania e la paura delle guerre nazionali, subì un brusco arresto.

Il ricamo
Le donne, pur molto impegnate nella quotidianità dei lavori domestici, nella cura dei figli e degli anziani, in molti lavori di vario genere e natura, trovavano anche il tempo, alla sera alla luce delle lampade o delle candele, di ricamare.
I ricami, con particolare riferimento al puncetto, molto belli e particolari erano eseguiti con finissima precisione utilizzando nastri e fili bianchi o colorati. I lavori venivano venduti o utilizzati per la dote delle ragazze. Molti, invece, erano utilizzati per guarnire gli abiti femminili, soprattutto i vestiti delle feste, e, pertanto, fotografie del secolo scorso possono testimoniare la ricchezza, la bellezza e la particolarità dei costumi femminili di Campello forse i più belli della valle.
Una cosa molto particolare della Valle Strona è che ancora oggi le donne più anziane indossano l'abito tipico come facevano le loro nonne nel secolo scorso.

IL COSTUME FEMMINILE DI CAMPELLO

Il settecentesco costume femminile di grande eleganza è - come si usa dire - il risultato di stratificazioni ed interventi successivi. Anche questo è oggetto di uno studio, promosso dalla Walsergemeinschaft Kampel per evidenziare influssi ed origini sia negli ornamenti che nei tessuti. Molti cambiamenti, infatti, sono legati alle mode dei vari periodi; come i foulards a disegni di rose che comparvero in seguito ad un viaggio di un campellese in Russia ed in Svizzera.
Grazie alla preziosa collaborazione con l'archeologa Francesca Gandolfo, specializzata nello studio dei tessili antichi (che lavorava presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma) si è avviata una indagine sul costume femminile di Campello Monti, costume che tra l'altro risulta conservato presso le stesso Museo Nazionale. Come la stessa dott.sa Gandolfo afferma, il costume femminile di Campello Monti, insieme a circa mille altri costumi, venne raccolto agli inizi del ‘900 per essere esposto alla mostra di etnografia che si tenne a Roma nell'aprile del 1911 per celebrare il cinquantenario dell'unità d'Italia.
La complessa operazione che diede vita all'esposizione di Roma sancì il connubio tra politica, istituzioni e cultura. Se da un lato la rampante borghesia italiana chiedeva, in nome di un'unificazione del Paese ancora lontana dalla realtà, una legittimazione nazionale e internazionale, dall'altro aveva al contempo bisogno di mostrare e dimostrare che le arretratezze economiche e culturali di cui soffriva la nazione facevano parte del passato e che le basi su cui si era fondata la sua unità politica e territoriale erano salde e preludevano a un futuro più che mai roseo.
Dall'esame diretto e indiretto dei singoli capi d'abbigliamento e dalle interviste fatte in Valle Strona, risulta che anche il costume femminile di Campello Monti sia, come la maggioranza dei costumi della collezione, la ricostruzione organizzata di pezzi originali provenienti da varie famiglie del luogo, riferibili a periodi cronologici situabili tra la metà e la fine dell'Ottocento.
Dopo la manifestazione di Roma anche il costume di Campello venne chiuso in un'angusta cassa di legno e vi rimase per otto decenni e più, fino a quando non è stato di nuovo scelto, insieme ad altri, per una mostra sui costumi del Piemonte e della Valle d'Aosta. Dopo quasi cento anni di silenzio éccoli dunque tornare alla ribalta per ragioni scientifico-amministrative. Il patrimonio culturale dello Stato viene infatti regolarmente censito, catalogato, studiato per diventare di dominio collettivo in occasione di mostre o di altre manifestazioni analoghe.
All'apertura della cassa lo stato di conservazione del costume di Campello (attualmente soggiorna in una confortevole e moderna cassettiera) si presentava discreto. Nessuna traccia evidente di usura lesionava irreparabilmente il tessuto di alcuna delle sue componenti, eccezion fatta per i nastri di seta del grembiule e per il lungo nastro di seta verde, composto in fiocchi e montato su di un supporto metallico, che orna un'acconciatura da testa. Non risulta che localmente si usassero tali acconciature e, tuttavia, rappresenta pur sempre una testimonianza di quanto ci è stato tramandato.
Gli elementi da cui è costituito il costume di Campello Monti conservato presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari sono otto e la dottoressa Gandolfo li descrive così :
la camicia (la Camisa) è di cotone bianco con maniche lunghe, tagliata sui fianchi e con un'apertura anteriore che giunge all'altezza della vita. Lo scollo è tondo, fittamente arricciato, con un colletto, anch'esso arricciato, chiuso da bottoncini. Una fascia di merletto al tombolo orna il collo e i polsi, mentre tramezzi di pizzo ad ago decorano l'attaccatura delle maniche e le spalle.
L'abito (la Rassa), di panno nero, è senza maniche e tagliato sotto il seno, lo scollo è quadrangolare con un'apertura anteriore che scende fino all'altezza della vita e si chiude con un nastro di seta passante per occhielli metallici. La schiena, sagomata e con ampie bretelle, è ornata da sottili strisce di tessuto operato multicolore. Una fitta pieghettatura sottolinea la vita e dà volume alla parte posteriore del vestito.
La giacca (al Camisulot) è di panno blu scuro e copre i fianchi , lo scollo è a "V" con un'apertura anteriore chiusa da bottoncini. Un gallone di passamaneria dorata è applicato lungo lo scollo, l'apertura e i polsini. Il risvolto dei polsini è di tessuto damascato di colore giallo dorato.
La pettorina (la Pezza), ricavata da un paramento sacro, è di colore rosso porpora, sul bordo superiore presenta un nastro di seta azzurro sul quale è applicato un gallone di seta dorato.
Il grembiule (la Scusal) è a due teli uniti da un tramezzo multicolore eseguito ad ago e mostra una fitta pieghettatura in vita fermata da un'alta cintura. I nastri (i Bindei) di legatura sono in pessimo stato di conservazione e la tela blu del grembiule presenta ampie zone scolorite.
Le calze (i Causi) sono celesti, lavorate a maglia, con un gambaletto che arriva al ginocchio, la soletta invece è bianca, di quelle intercambiabili. Le scarpe, di lana nera lavorata a maglia, hanno la suola liscia formata da vari strati di tessuto cuciti a mano e sono munite di puntali e talloni rinforzati con panno nero. La mascherina è ornata da una striscia di passamaneria di seta multicolore a motivi floreali.
Questi indumenti furono raccolti in Valle Strona da collaboratori di Alessandro Roccavilla nel 1909 e tra di essi non compaiono due elementi significativi del costume di Campello Monti: la cintura (la Curugia) e il fazzoletto da testa ('l Mucaröl du testa).
Da un punto di vista formale il costume femminile di Campello Monti sembra conformarsi nel suo insieme ad uno stile tipicamente ottocentesco, soprattutto per quanto riguarda la linea "impero" dell'abito, con il punto vita subito sotto il seno, e la foggia della lunga giacca che presenta sul davanti uno scollo a "V" e nella parte posteriore tre grandi pieghe cucite in vita. Il taglio e la confezione delle diverse componenti denotano una manifattura artigianale, opera non certamente di professionisti. A volte sono visibili punti di cucitura grossolani e le rifiniture in generale lasciano a desiderare, anche nelle zone più esposte. La foderatura del vestito e della giacca è parziale, mettendo in evidenza come si economizzasse anche sull'impiego di tessuti non di pregio.
L'unica differenza che caratterizza il costume femminile di Campello attuale e lo differenzia da quello conservato nel Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, si riscontrano nella camicia. Gli inserti delle maniche e dei polsini sono fatti con il puncetto valsesiano (‘l Puncet), particolare tecnica di ricamo formata da una serie ordinata di nodi eseguiti con l'ago, mentre lo scollo è quadrato, sempre contornato dal ricamo a puncetto.
Non esiste un costume maschile, non è mai esistito, in quanto gli uomini, costretti ad emigrare per i loro commerci, si "appropriavano" della moda dei luoghi nei quali giungevano. E' questa una ipotesi che, verificata con alcuni riscontri storici, ritengo esaustiva. In sostanza il "costume maschile" di Campello era di fatto l'abito della festa, quello di nozze in particolare. Questo fatto ci differenzia dalle altre Comunità Walser che invece hanno mantenuta questa tradizione.

IL TITTSCHU WALSER A CAMPELLO MONTI

L'antica lingua dei Walser a Campello si è persa tra la fine dell'800 e i primi anni del secolo scorso. Le cause sono state molteplici e alcune anche "politiche". Le autorità civili e religiose, a partire dal secolo XVIII, imposero norme e regole che obbligarono i campellesi a ricorrere in sempre maggiore misura alla lingua italiana, o quantomeno al dialetto lombardo/piemontese parlato nella bassa valle ed a Omegna. Il passaggio dalla provincia valsesiana al Mandamento di Pallanza; lo scorporo dalla Parrocchia di Rimella e il forzato accorpamento con la Parrocchia di Forno; il divieto del Vescovo di Novara a inviare parroci parlanti il tittschu; i matrimoni con donne non della comunità di Campello o Rimella , fecero sì che gradatamente il tittschu si "annacquasse" per finire totalmente dimenticato.
Oggi la Legge 15.12.1999 n° 482 - Tutela delle Minoranze Linguistiche -, fatta propria anche dagli Enti Pubblici territoriali (Comuni e Provincia), consente di promuovere accordi con le Istituzioni scolastiche per iniziare ad insegnare, nel caso di Campello, almeno il tedesco. Credo sia uno sforzo culturale notevole e forse non pienamente compreso e condiviso anche dalla stesse famiglie residenti. Questo perché nell'ambito del Comune di Valstrona, solo il territorio dell'ex Comune di Campello (oggi peraltro popolato solo nel periodo estivo) conserva una memoria storica tale da far auspicare almeno l'insegnamento della lingua tedesca.
Tra l'altro, è proprio di questi ultimi mesi, la notizia che anche la Regione Piemonte intende promulgare una Legge Regionale a tutela delle minoranze Walser. Non ci resta che attendere il testo per valutarne le possibili implicazioni.

VITA CULTURALE

Kampell: Logo der Walsergemeinschaft von KampellCostituita nel lontano 1991, la Walsergemeinschaft Kampel - Gruppo Walser Campello Monti - è l'unica Associazione, che in collaborazione con la Pro Loco, promuove la conoscenza della realtà walser di Campello.
Il 03 agosto 2002 si è tenuto il 10° Convegno "Campello e i Walser" e, per far meglio comprendere la mole di attività promosse, di seguito si traccia un breve riassunto dell'attività di questa Associazione :

1° Convegno.
relatori : Storia, tradizioni e cultura di Campello Monti - dott. Francesco Pesce; dott. Dino Vasina - I Walser e la loro lingua : il Titschu di Rimella; sig. Heinrich Welf - La lingua Walser; sig.ra Angela Gagliardini - Esempi di frasi e parole nel titschu di Alagna; dott. Mariangiola Bodo e dott. Michele Musso - Comunità alemanne e franco-provenzali nel territorio di Issime e Gaby : note di toponomastica e demografia storica; dott. Valerio B. Cantamessi - Indirizzi di ricerca storico-linguistica di Ornavasso: il Seicento; dott. Paolo Crosa Lenz - Appunti per un'indagine antropologica su una Comunità walser delle Alpi: Campello Monti; sig.ra Imelda Ronco Hantsch - D'junhfarwa - la servetta - poesia di Issime; sig.ra Irene Alby - Hert beini - vicinissimo a voi : poesia di Issime; sig.ra Anna Maria Bacher - Frindschaft - amicizia e Gagum Aba - verso sera : poesie di Formazza.

2° convegno.
relatori: prof. Annibale Salsa - Il vissuto simbolico e magico religioso nell'ecosistema culturale alpino dei Walser campellesi; dott.ssa Fiorella Mattioli Carcano - Il rito della doppia morte (repìt) a Santa Maria di Rimella e presso altre Comunità walser.

3° Convegno.
relatori: sig. Elvise Fontana - Miti e leggende, espressione di cultura popolare; prof. Enrico Rizzi - I Walser a Campello.

4° Convegno.
relatori: dott. Emilio Locatelli - Aspetti di vita quotidiana a Campello Monti prima del secondo conflitto mondiale. Alcune indicazioni bibliografiche; Arch. Michela Mirici Cappa - Ambiente e sistema edilizio nella cultura walser. Analisi della struttura tecnologica ed insediativa nelle colonie tedesco-vallesane di Alagna, Macugnaga e Formazza.

5° Convegno.
relatori: dott. Grazia Bertola - Aspetti socio-economici del Comune di Campello Monti; dott. Francesca Gandolfo - Realtà e mito nei costumi tradizionali e popolari del Piemonte e della Valle d'Aosta. Gli abiti raccontano la loro storia : il costume femminile di Campello Monti.

6° Convegno.
relatori: geom. Antonio Zaretti - Storia delle singole case, in funzione dei loro proprietari, nel corso dei tempi; maestro Renato Perinetto - Pirubek - poesia di Issime di Alberto Linty : analisi e commento.

7° Convegno.
Relatori: dott. Giovambattista Beccaria - Le origini della Comunità Ecclesiale di Campello e della sua parrocchia nel 250° di fondazione : 1749/1999; Mariangiola Bodo - Michele Musso - Alessandra Sarasso - Issime una Comunità alpina : cibo e identità culturale.

8° Convegno.
Relatori: prof. Sergio Monferrini - Pellegrinaggi walser alla tomba di San Giulio d'Orta dal sec. XVI.; dott.sa Susanne Lehringer - dott. Franz Hochtl - L'alta Valstrona tra paesaggio alpino tradizionale e libero sviluppo della natura (wilderness).

9° Convegno.
relatori : dott. Mario Remogna - Sistemi tradizionali di cura delle malattie fra la gente Walser; prof. Luigi Rossi - Origini e cause dell'emigrazione campellese verso l'area tedesca. Le vie ed i mestieri.

10° Convegno.
Relatori: prof. Annibale Salsa - Montagne e montanari tra passato, presente e futuro, ovvero tra dimensione locale e dimensione globale; Istituto Tecnico "Ferrini" e dott. Beccaria G.Battista
1781 la piena distrugge - 2002 il computer ricostruisce (Ricostruzione virtuale, su CD ROM, della chiesa al Gaby di Campello).

Per promuovere una sempre maggiore conoscenza di Campello Monti e, conseguentemente, la Valstrona lo scorso anno abbiamo partecipato alle seguenti manifestazioni :
- Le cucine di minoranza nelle vallate alpine : Ladini, Occitani, Valdesi e Walser : Torre Pellice, 15/16/17 ottobre 1999, in collaborazione con la Regione Piemonte.
- Memorial don Sisto Bighiani : Macugnaga, 26/27/28 Novembre 1999, in occasione dei Mille anni di fondazione di Macugnaga. Concorso gastronomico tra le scuole alberghiere dal titolo "La cucina walser oggi".

Ci siamo invece fatti promotori di un :
- "Progetto di Turismo Culturale in Valle Strona" con la costituzione di un Gruppo Interdisciplinare, di esperti in più settori, che si è incontrato per la prima volta a Varallo Sesia il 12 novembre 1999. Per poter valutare l'importanza dell'iniziativa e delle prospettive si riporta una stralcio del verbale della citata riunione del 12/11/99 :
".........Il Presidente della Walsergemeinschaft Kampel, Rolando Balestroni, dopo aver brevemente illustrato i caratteri peculiari della Valstrona :
- geologia, petrologia e linea insubrica;
- forte concentrazione artigianato del legno;
- attività estrattiva di marmo e di minerali di nichel ;
- posto tappa della GTA (Grande Traversata delle Alpi) e GSW (Grande Sentiero Walser);
- favorevole legislazione,
ritiene che, se condivise dai presenti, vi siano le condizioni per elaborare un progetto credibile che possa offrire, all'intera Valstrona, nuove opportunità anche di lavoro tali da frenarne lo spopolamento.
Tra tutti i convenuti si apre un ampio dibattito dal quale emergono alcune linee guida che, in sintesi, si possono riassumere nella definizione di un progetto credibile di valorizzazione dell'intera area e che si basi su alcuni punti cardine di seguito elencati :
- Sentieri;
- Cartellonistica;
- Miniere;
- Marmo;
- Museo;
- Coinvolgimento popolazione locale;
- Artigiani : binomio artigianato e turismo;
- Gruppo di lavoro : interdisciplinarietà;
- Qualità del territorio : condivisione di una realtà ambientale e socio/economica viva.

Proposte :
- Con il coinvolgimento dell'Ente Locale, per far comprendere che quanto sopra non è assolutamente fantasticheria irrealizzabile, gita a Schneeberg, villaggio posto a 2300 metri, sfruttato durante il fascismo per le sue riserve di piombo e zinco, abbandonato è divenuto un museo della civiltà mineraria.

Questo progetto non può concretizzarsi senza il determinante appoggio e condivisione sia del Comune che della Comunità Montana Valstrona, alle quali faremo riferimento non appena in possesso di elementi concreti da proporre.

Sono in corso completamento alcune ricerche tra cui quelle su :
- Demografia e le famiglie attraverso il "Liber Status Animarum" - il Libro dello Stato delle Anime - cioè i censimenti redatti dai parroci che si sono succeduti a Campello dal 1749 ad oggi. Storia delle singole case, in funzione dei loro proprietari, nel corso dei tempi, iniziata con lo scorso Convegno di Studi dal geom. Zaretti Antonio. Ad oggi abbiamo già completato 6 delle 31 abitazioni di Campello, capoluogo dell'ex Comune autonomo di Campello cui andranno aggiunte le frazioni di Valdo, Pian Pennino e Tapone.
- Aspetti mineralogici e petrografici - della Valstrona con particolare riferimento alle miniere campellesi di nichelio, uniche in Europa per la presenza di platino.
- La cucina dei nostri avi - è sostanzialmente dallo scorso mese di agosto che lavoriamo a questo tema con un lavoro di ricerca sulla cucina di Campello che si concluderà tra qualche tempo. Quello che inizialmente parevano ricordi irrimediabilmente perduti (nessuno degli interpellati aveva qualcosa di riferire) man mano che si toccavano singoli temi (ad esempio : minestre - riso - patate - polenta - latte - formaggi - rane - lumache ecc......) ecco che uno spunto ne trascinava un altro e così via. Oggi abbiamo parecchie pagine di informazioni, aneddoti, momenti di vita vissuta, intensi rapporti interpersonali in famiglia e con la Comunità Campellese, tutte riunite sotto un comune denominatore : che cosa si mettevano sotto i denti.
- La toponomastica e i toponimi di Campello - in collaborazione con l'Università di Torino è stata iniziata la ricerca sui toponimi che si concluderà con la pubblicazione di un libro.
- A Luserna, il 25 e il 26 maggio 2002 è stato costituito un Comitato Unitario delle Isole Linguistiche Storiche Germaniche in Italia. I Walser del Piemonte sono rappresentati dalla nostra Associazione, che ha anche attivamente partecipato alla stesura dello Statuto.
- 13 Gennaio 2003 - siamo diventati soci dell'Ecomuseo Cusius che raggruppa i musei di tutte le più importanti località del lago d'Orta.

BIBLIOGRAFIE

Francesco Pesce: Storia, tradizioni e cultura di Campello Monti.
Enrico Rizzi: I Walser a Campello.
Paolo Crosa Lenz: Appunti per un’indagine antropologica su una Comunità Walser delle Alpi: Campello Monti.
Grazia Bertola: Aspetti socio-economici del Comune di Campello Monti.
Emilio Locatelli: Aspetti di vita quotidiana a Campello Monti in Valle Strona prima del Secondo Conflitto mondiale.